Bisogna ringraziare Leos Carax per aver fatto un film che riflette su temi di grande importanza per un regista – il destino del proprio lavoro, la necessità del cinema di fronte ai cambiamenti del mondo, i classici binomi realtà e finzione, vita e sua rappresentazione – senza essere didattico come gli americani né mortalmente cerebrale come gli europei.
C’è tutta la fatica – letteralmente sangue, sudore e lacrime – della professione dell’attore (Carax è stato anche attore) nella giornata di Monsieur Oscar, persona (personaggio?) chiamato a recitare 9 ruoli in una lunga giornata lavorativa, condotto sui set a bordo di una limousine-camerino da una autista anche lei in parte.
Leos Carax, che non dimentichiamolo è uno pseudonimo (il regista di chiama Alexandre Oscar Dupont, e qui le cose appaiono ancora più chiare, o più complicate?), allestisce un’opera che senza rinunciare alla fascinazione visiva, recupera la priorità del gesto attoriale e dell’uso del corpo (1), evidenziadone la necessità scenica, anche quando plateale (l’annunciata uscita di scena della hostess Kylie Minogue), la centralità del trucco – sia in senso lato (il regista è un mago diceva Welles) sia più propriamente in senso stretto (il trucco di scena), coprire il proprio volto per essere finalmente veri o – ulteriore estremo – (ri)diventare anonimi una volta fuori scena (l’autista del nostro Oscar a fine giornata si copre con una semplice maschera senza lineamenti).
E centrale è anche lo script – con buona pace di chi ritiene che il cinema non vada lasciato ai narratori di storie. Oscar riceve uno script prima di ogni appuntamento e l’unico momento in cui si affida all’improvvisazione (l’uccisione del banchiere) crea “confusione”, come si scusa Cèline, la fida autista.
C’è molto gusto del teatro in Holy Motors. L’attore ruba spazio al regista (che però lo recupera comparendo, corpo e voce nel film) nel tentativo di tornare ad appassionare un pubblico, farlo uscire dalla catatonia in cui lo vediamo nel folgorante inizio del film.
E si ride in Holy Motors, per la consapevolezza di assistere all’essenzialità del cinema, a una finzione che racconta una finzione che copre una realtà. E per la provocazione beffarda con cui il regista dice tante cose e tutte importanti scevro di autismi intellettuali.
Holy Motors è (anche) una riflessione sul (proprio) mestiere, su quanto sia cambiato e sulla necessità di continuarlo “per la bellezza del gesto” nella speranza che la gente abbia ancora voglia di un po’ di azione.
Sia consentito un grazie a Denis Lavant, meraviglioso protagonista.
Leos Carax ci ricorda che il mondo, come il cinema, non solo ha perso irrimediabilmente la sua unità ma si è franto in un enorme, gigantesco, spettacolo che ci vede dormienti e al buio in una notte artificiale all’interno di un cinema e che impegna quelli di noi ancora con gli occhi aperti in una reboante, metamorfica e logorante esibizione, con tanto di direzione e supervisione.
Hai molto ragione sulla centralità del lavoro attoriale in Holy Motors.
ti ringrazio, come sono grato per il contributo che hai dato col tuo commento.
🙂