Il cliente, o della ri-costruzione

Come in Una separazione, i personaggi di Faradhi colpiti dall’improvviso mutare dei loro riferimenti sicuri, si guardano senza avere più molto da dirsi, la solitudine dello sguardo che realizza un rapporto rotto o comunque incrinato che non si può aggiustare.

Ne Il cliente (che poi in originale sarebbe il venditore) Emad e Rana devono lasciarecliente2 precipitosamente la loro casa perché degli incauti lavori edilizi di fianco al loro palazzo lo hanno reso pericoloso.

Alla ricerca di una nuova abitazione, un collega della compagnia teatrale dilettante cui partecipano dopo il lavoro li porta in un suo appartamento senza chiedere loro affitto.
La abitazione si rivela essere stata occupata in precedenza da una prostituta, il che genererà un equivoco che sconvolgerà la vita dell’insegnante Emad e di sua moglie.
L’evento traumatico che colpisce la donna viene subito in modo diverso da entrambi che non riescono davvero ad affrontarlo assieme per superarlo.

La trasformazione urbanistica della città, continua, a volte approssimativa e un po’ cliente1maldestra ma inarrestabile è nemmeno troppo sottile metafora della voglia di cambiamento di un paese e, dal piccolo al grande di un rapporto affettivo chiuso tra mura deboli e incerte quando non sconosciute e ostili.

I momenti importanti della storia, le tensioni e le soluzioni si muovono dentro le mura (siano quelle della casa nuova o di quella vecchia, siano quelle della scuola dove lui insegna che quelle teatro dove insieme agli amici mettono in scena Morte di un commesso viaggiatore.

E il teatro è mirroring necessario della storia dei nostri due protagonisti, insieme anche sul palcoscenico, marito e moglie qui chiusi tra rassicuranti gesti codificati e battute necessarie incrinate subito dalla vita vera che irrompe anche in scena lacerando la routine e la sicurezza di un copione già scritto.

Farhadi lavora ancora sulle coppie della borghesia di Teheran il cui rapporto viene messo cliente3alla prova da eventi esterni, traumi che lo mettono in crisi, dal grande al piccolo, la società iraniana che cambia sgretola le pareti (fragili) che avvolgono la coppia.

Il regista ha una formidabile capacità di mettere in scena la quotidianità rendendola interessante e universale (come del resto accade con l’opera teatrale che la coppia sta mettendo in scena) affidandosi ad attori che suscitano grande empatia, e senza enfasi e patetismi gira un altro tassello della storia di una città in trasformazione.

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È solo la fine del mondo, i fantasmi di Dolan

Quando un ragazzo di 26 anni scrive, dirige, monta, sceglie i costumi e cura persino i sottotitoli per le versioni internazionali dei suoi film che gli vuoi dire?

Xavier Dolan è sicuramente un regista che non ha paura di confrontarsi col presente deldolan1 cinema ma nemmeno col passato ingombrante, né ha timore dei fantasmi dei film seguenti, cioè le aspettative di un pubblico che vuole sempre di più e di una critica pronta un po’ invidiosa pronta ad azzannarlo al primo passo falso.

E il ragazzino anziché andare sul sicuro, in È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde) ingabbia il suo cinema dinamico e sfrontato in un testo teatrale che finisce per essere quasi una prova, un saggetto di cinema ad uso di un cast di attori di fama (Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion Cotillard e Léa Seydoux).

Louis è uno scrittore che sta morendo (niente spoiler lo sappiamo all’inizio del film ed è una comunicazione che il regista dà solo al suo pubblico); sta tornando a casa dopo 12 anni per rivedere il fratello che ne frattempo si è sposato e ha due figli, la sorella e la madre. L’incontro farà riemergere antichi rancori e un la (im)possibilità di creare un legame vero o di recuperarlo tra un uomo anaffettivo (con molti sensi di colpa) e una famiglia che lo ama e lo ha amato con rabbia per essersi sentita messa da parte.

Sia permesso a questo punto, suggestionato dalla visione, esporre una piccola teoria. Louisdolan2 in realtà è già morto e quella cui assistiamo è una incredibile seduta spiritica, Louis è il fantasma del figlio/fratello mai più tornato cui i suoi famigliari vogliono disperatamente dire un’ultima cosa.

L’unica che pare sentirlo è la cognata, una estranea appunto, che il ragazzo non ha mai conosciuto e che entra empaticamente in contatto con lui, medium di sentimenti mai tirati fuori, affetti mai.

Nella scena a tavola, il pranzo al quale Louis ha deciso finalmente di partecipare, egli è dolan3seduto a capotavola, e gli sguardi degli altri, i gesti i movimenti, trasformano quella tavolata quasi in una seduta spiritica. 

Un dialogo (im)possibile tra un uomo anaffettivo, solitario e una famiglia abbandonata che ha provato disperatamente a capirlo.

Si muore sempre da soli specie quando si fanno scelte dolorose, egoistiche ma necessarie come quelle di andare via da una famiglia cui non ha più nulla da dire.

Dolan schiaffeggia il pubblico con la sfrontatezza delle sue riprese, con alcune metafore quasi imbarazzanti e con un finale decisamente troppo. Ma ci sono alcuni pezzi di bravura in cui si vede un cinema capace di entrare empaticamente in contatto col pubblico, acchiapparlo per il cuore e spingerlo ad affrontare i tradizionali accostamenti arditi tra canzoni e sequenze che caratterizzano da sempre il regista canadese.

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Paterson, Jarmush e la poesia del fallimento felice

Non sorprende l’interesse per la poesia in un regista come Jim Jarmush.

Siamo a Paterson una anonima città del New Jersey che deve la sua fama a un pugno di artisti e sportivi (peraltro di non grande richiamo se non per appassionati) che lì ebbero i natali tra i quali naturalmente spicca il poeta William Carson Williams.

Il nostro protagonista si chiama anche lui Paterson (un cognome un destino) nonpaterson2 potrebbe essere nato altrove né vorrebbe andare altrove. La sua giornata segue itinerari consueti e programmati, la sveglia poco dopo le 6, la colazione con gli stessi cereali, la guida di un autobus cittadino, le poesie scritte ogni giorno che documentano una vita (stra)ordinaria. Il ritorno a casa da Laura, la compagna che fa l’artista inventando ogni giorno un modo diverso di riempire la sua vita, perché fare è più importante di riuscire e sognarsi cantante country senza sapere cantare o suonare ma farlo con energia e il sorriso di chi ha già vinto e l’inconsapevolezza fanciullesca che è tutto un gioco (oggi giochiamo a…).

Paterson è la poesia delle piccole cose, delle rassicuranti banalità quotidiane, dell’assenza di (ulteriori) aspirazioni o delle ambizioni mancate, del felice fallimento e della sicurezza di un eterno ritorno delle (alle) abitudini quotidiane smosse solo da piccoli eventi vissuti con un invidiabile stupore infantile.

Il nostro Paterson ama teneramente la sua compagna Laura e mostra un amorevolePATERSON_D26_0049.ARW entusiasmo per tutti i energetici progetti di lei, in fondo perché deludere il suo formidabile spirito di iniziativa, la sua creatività persino quando cucina una immangiabile torta salata ai cavoletti e groviera. Non si alza mai la voce in casa di Paterson e Laura come anche nel mondo di Paterson dove ogni dramma scolora nel suo ironico depotenziamento, dai tormenti familiari del suo capo all’amico Everett che ama una donna non riamato e finge un comico suicidio nel bar di Doc, meta serale del nostro protagonista. E che dire che la moglie dello stesso Doc che irrompe nel bar minacciando il marito di volere indietro i soldi spesi da lui per partecipare a un torneo di scacchi?
Ogni interruzione della routine, ogni movimento delle acque tranquille dell’esistenza viene immediatamente sedato, eccezione che conferma la regola di una vita senza sorprese.
Emblematica la metaforona dei cerchi che Laura dipinge continuamente, ci si muove sempre in circolo per restare fermi.

Paterson parla poco forse perché non ha molto da dire, o forse perché tutto il piccolo mondo intorno a lui ha detto tutto.

E suona ironica la citazione di Gaetano Bresci, l’anarchico che fece fuori re Umberto I e paterson3che precedentemente soggiornò a Paterson. “Pensi ci siano degli anarchici qui a Paterson oltre a noi?” dice il ragazzino alla sua compagna di studi mentre scendono dall’autobus guidato dal nostro protagonista. Forse l’unico altro anarchico sembra essere il cane di Paterson e Laura, Marvin che ogni sera inclina il palo della posta davanti casa (che rientrando Paterson raddrizza) e che distrugge il prezioso taccuino con le poesie.

Siamo tutti poeti, un autista di autobus, una bambina, perfino il tenero giapponese venuto fin lì per vedere il luogo di nascita del “famoso poeta William Carson Williams”.

La ricetta della serenità a Paterson è, per usare le parole di Oscar Wilde, desiderare quello che si ha non quello che non si ha.

Il film si balocca con queste idee e richiede al pubblico una grande empatia. Se non si riesce ad amare Paterson e Laura la “poesia” propalata dal film si scopre un po’ banale e noiosa come i suoi protagonisti.

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Le storie d’amore come le serie tv

Adoro i pilot, le “series finale” mi hanno sempre fatto piangere.

Quando si vedono tante (troppe) serie tv si finisce per usarle come metafora, anche quando non si dovrebbe.

Ed ecco. Adoro i pilot si diceva. Il primo episodio preparato con cura, attenzione serietv1entusiasmo e voglia di piacere, essere visti e ottenere il contratto. Si cura il dialogo, si costruisce l’architettura di una storia che si spera di portare avanti per una stagione (con una bella riconferma), si osa per stupier ma cercando di non esagerare.

Se va bene, se l’episodio pilota è un successo o comunque non un totale disastro (gli ascolti nella media di rete assicurano la firma per gli episodi successivi) si va avanti. Magari è anche un successo clamoroso, amore da subito e firma immediata di tutti gli episodi della prima stagione. O si va avanti episodio per episodio strappando la conferma, la messa in onda ogni volta.

Insomma si è ingranato. E qui si possono avere diversi sviluppi: la miniserie (3-6serietv2 puntate)1, la serie lunga (22-24 episodi) o quella breve (10-13). 
La miniserie non è male, se la si è costruita fin dall’inizio come tale, se si sa che più di 6 episodi non si andrà avanti e la si chiude felici e soddisfatti, non doveva né poteva durare di più. Il guaio è quando una storia nata per essere miniserie, per un fraintendimento della produzione si trascina per molti più episodi del necessario.
Le serie più lunghe sono quelle in cui si investe maggiormente, si ha tempo per costruire lentamente personaggi e situazioni, si spera che si possa proseguire anche per le stagioni successive. 
E se arriva la cancellazione beh, spiace certo ma pazienza almeno si è tentato, importante comunque è avere tentato.
La cancellazione improvvisa fa sicuramente male, specie se l’autore non l’aveva prevista ma occorre andare avanti.

Se invece la serie viene confermata, attenzione allo sviluppo. Ci sono serie tv cheserietv3 procedono tranquille come un procedurale, la risoluzione del dramma avviene puntualmente a fine episodio, i buoni vincono i cattivi perdono e tutto è rassicurante. Ci sono serie che vivono del cambio di passo, in cui si lotta continuamente, non bisogna mai abbassare la guardia e i colpi di scena, di stagione in stagione si susseguono direi obbligatoriamente. Ansia, naturalmente voluta dagli autori. E ci sono quelle che vivono dei cambi di passo, delle rivoluzioni nella trama, e occorre un forte spirito di adattamento e accettazione dei cambiamenti.

Odio le “series finale”, si diceva; specie quando il finale della serie è improvviso, quando non sei pronto, quando vorresti che la storia andasse avanti ma la Rete decide che non ci sono più le condizioni. E ti batti e piangi e imprechi, e resti aggrappato a quella storia sulla quale avevi investito molto. Niente da fare, la serie è finita.

Non resta che prendere un foglio di carta, aprire un documento Word, ricominciare daccapo.
Adoro i pilot. 

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Sully, o di Eastwood che fa semplicemente il suo lavoro

Un buon film è 50% una buona storia, 40% un cast azzeccato e a te come regista rimane il 10% per rovinare tutto.

Ho parafrasato un poco la frase detta più volte da Clint Eastwood e che esprime il suo modo vecchia Hollywood di fare cinema: puntare su una storia forte e un cast che funzioni.

In Sully, ultima regia del nostro, la storia c’è. Il comandante Chesley “Sully” sully1Sullenberger nel 2009 riesce miracolosamente a fare atterrare un aereo di linea con 155 persone a bordo sul fiume Hudson dopo avere perso i entrambi i motori subito dopo il decollo per colpa di uno stormo di oche. 

La storia di un uomo che ha semplicemente “fatto il suo lavoro”, un americano straight che rispetta ma diffida delle istituzioni, che segue il suo istinto e l’esperienza rispetto alle righe del regolamento. Situazioni eccezionali necessitano di risposte eccezionali. Non c’erano altri modi di fare atterrare quell’aereo, solo uno, quello giusto.

Il cast c’è. Eastwood si assicura il nipote di James Stewart, quel Tom Hanks che sa portare il pubblico al cinema e che in questo film fa un lavoro recitativo di sottrazione davvero notevole.

Ma c’è anche la regia di un uomo che sa quello che vuole esattamente come il sully2comandante Sully, che non ha paura di girare tutto il film in IMAX, perché la tecnologia non è nemica di un buon script e che ancora una volta, in modo diretto senza bisognod i alzare la voce di una spettacolarità e di una enfasi che non gli appartengono ci ribadisce la sua idea di cinema.

La simulazione di un computer non sostituirà mai il “fattore umano”. Gli effetti speciali non sostituiranno mai gli attori e una pessima sceneggiatura non è salvata dalla computer grafica. Non tutti sono d’accordo ma questo nonno del cinema io credo abbia molte ragioni.

Sono rimasti in pochi i registi mainstream a credere in una buona storia e nel lavorare per avere un buon cast. Quando spariranno anche loro se ne andrà un pezzo del cinema industriale americano.

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Il Dottor Solomon e io #12

Dopo una lunga interruzione un ultimo capitolo di un percorso durato 12 tappe. Grazie per averlo seguito fin qui.
Mi chiamo Pascal e sono uno scienziato, dirigo un Dipartimento all’università e nel mio lavoro sono ordinato, razionale e preciso. La mia vita personale è caotica, disordinata e depressa dopo alcune vicende affettive. Sto affrontando con scetticismo, volontà e curiosità un viaggio per capire come uscirne. Mi aiuta l’analista più improbabile che potessi trovare.

(Gli episodi precedenti sono qui : uno, due, trequattro cinque sei, sette, otto, nove, dieci, undici)

Mentre sono steso per l’ultima volta sul divano troppo morbido del Dottor Solomon ripenso agli ultimi mesi di terapia, a quanto siano stati faticosi, a tutte le volte che volevo lasciar perdere, alla mia razionalità, la pervicacia con cui restavo attaccato a quel bagaglio così ingombrante che era il ricordo di Fran e del modo in cui mi aveva lasciato. E mi rendevo conto quanto, nel suo modo fintamente indifferente che oramai conoscevo troppo bene più il Dottor Solomon cercasse di farmi lasciare il bagaglio nel deposito dei ricordi cui apparteneva per sempre.

La rabbia che provavo verso di lei era sparita, così lontana, così evanescente come una casa che sparisce nella nebbia e ne vedi solo i contorni e poi decidi di non guardarla più.

La mia parte razionale, quella stessa parte che aveva opposto una, mi rendo conto ora, iniziale sciocca resistenza alla terapia, sembrava sparire quando si trattava di Fran, i suoi lunghi capelli biondi, il sorriso timido, la sua ironia che io fraintendevo sempre. Quella parte razionale della quale mi vantavo così tanto, che mi aveva portato a dirigere un Dipartimento universitario non mi era stata di nessun aiuto nel capire la fine di un percorso, di una storia, analizzare il malessere di Fran e la sua cattiveria nei miei confronti, che altro non era, me ne rendo conto ora, che un modo, brusco come solo lei era capace di fare, di allontanarmi per il bene di entrambi.

Il Dottor Solomon stimolando la mia parte irrazionale, liberandomi dal controllo continuo, provocandomi per percorrere strade diverse mi ha fatto trovare una uscite insperata.

Ora sento un senso di abbandono nella consapevolezza di lasciare questo studio al terzo piano della palazzina liberty nel centro della grande città che oramai conosco così bene.

I miei pensieri smettono di fluttuare nella stanza, sento il rumore sordo che fa il Dottor Solomon quando aggiusta il suo immenso corpo nella poltrona che lo contiene così bene. L’immenso terapeuta sta scrivendo qualcosa su un taccuino.

– Dove eravamo? Mi ero distratto.

– Dove siamo sempre stati, caro Pascal, fin dal primo giorno.

Il Dottor Solomon continua a scrivere sul taccuino. Durante le nostre sedute nel corso di tutti questi mesi non l’ho mai visto prendere appunti.
– Non capisco.
– Ma sì che capisce. Vede, caro Pascal, siamo sempre stati sulla strada giusta. Lei non si era smarrito, semplicemente non voleva muoversi; vedeva il sentiero dritto davanti a lei, certo con i suoi ostacoli – che ci sono e ci saranno – le sue difficoltà. Ma quel sentiero era chiaro e a lei presente, solo che lei si rifiutava di camminare. Quanti sforzi ha fatto fare a un uomo della mia età, mio caro Pascal. Non sono più un ragazzino.
– Ho un po’ di paura ora.
– Naturale che la ha, caro Pascal, l’abbiamo tutti, è ciò che ci fa stare in vita. Ma ora lei non ha più timore di muoversi, e anche se il suo cammino dovesse essere solitario, senza una compagna di strada, troverà durante il percorso così tante persone che le vorranno bene e vorranno aiutarla, parlarle, fare un pezzetto di cammino con lei che non si annoierà di certo.

Le lacrime mi bagnano un po’ gli occhi mentre mi metto seduto sul divano troppo morbido dello studio del Dottor Solomon.

– Sono curioso. Lei non ha mai preso appunti durante le sedute.
– Oh, naturalmente. Questa è la lista della spesa, non sa quante cose si dimenticano una volta entrati nel negozio. Finiamo per prendere tante cose inutili che dobbiamo portarci a casa scordando proprio quelle per le quali eravamo entrati.

Non so se sia una metafora, non mi importa. Sono contento e triste assieme, ma contento. Mi alzo. Non stringo la mano al Dottor Solomon, non ama molto il contatto fisico. Lo guardo e lui si liscia la barba sorridendomi con gli occhi.

Sono arrivato alla porta dello studio quando sento la sua voce.

– Pascal, mi raccomando non smetta di mangiare orsetti di gomma.

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Alla ricerca di Dory, la Pixar e gli archetipi

Dopo avere regalato sogni e incassi alla Pixar con Alla ricerca di Nemo, Andrew Stanton riprende in mano la sua storia per (ri)costruire un’altra “ricerca del padre” saccheggiando immortali archetipi e consegnando allo Studio uno dei più formidabili incassi nella storia del cinema di animazione.dory1

Alla ricerca di Dory riparte dal ritorno a casa dopo il salvataggio spettacolare di Nemo del film precedente.
È passato un anno e Dory, la pesciolina che ha la memoria a breve che non funziona, dà una mano nell’insegnamento ai piccoli pesci.
I ricordi del passato però si fanno vivi e Dory comincia a ricordare qualcosa dei suoi genitori, che ci fanno conoscere in un flashback in cui possiamo anche vedere la Dory bambina.dory3
La pesciolina smemorata ma coraggiosa coinvolgerà Nemo e suo padre nella ricerca dei genitori perduti (e del proprio passato, lei che ha difficoltà col presente):
La solita compagnia di “guardiani di soglia” (personaggi che aiutano o ostacolano l’eroe nella sua ricerca) in cui la Pixar è bravissima, avranno modo di esibirsi per la gioia degli spettatori. Ovviamente il polpo Hank ruba la scena a tutti.

Significativamente il film si chiama Finding Dory, non solo per ovviamente richiamaredory2 quel Finding Nemo di cui costituisce il seguito, ma perché più che della ricerca dei genitori, mero archetipo narrativo, il film si preoccupa – ad una lettura più adulta – di fare trovare a Dory il suo posto nel mondo. Chiudendo i propri conti con il passato (come altri personaggi Pixar dal vecchio di UP! fino anche a Wall-E e il suo passato vintage) Dory costruirà il suo (nuovo) presente e il suo futuro.

Finding Dory mostra la formidabile capacità della Pixar di recupero e riutilizzo, sia detto in senso positivo naturalmente, del cinema industriale. Una scrittura professionale e precisa che sa dove portare il pubblico usando la retorica giusta, dosando tempi e modi. Una macchina di scrittura impressionante che non pare quasi mai sbagliare.
I pericoli c’erano, poteva nascere una operazione come Monster University (deludente seguito di un capolavoro assoluto).
Ma il viaggio dell’eroe quando è così didatticamente usabile funziona sempre.dory4

E c’è poi la pillola superficiale ma efficace lezione di vita americana – che la Pixar abilmente veicola al mondo – quel “just keep swimming”, continua a nuotare, vai avanti nonostante gli handicap che la vita ti butta addosso per non sentirsi mai un pesce fuor d’acqua (perdonate l’ovvietà).
Ed è anche lezione di cinema di animazione, scrivi una storia che non si areni dopo i primi 15 minuti (capito Dreamworks?) e continua a mandare avanti i tuoi personaggi, dagli uno scopo.
E uno scopo è necessario sempre, per vivere come per vedere un film.

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Ma Loute, la follia controllata di Dumont

Si rischia di apparire balbettanti nelle proprie considerazioni di fronte a un film come Ma Loute di Bruno Dumont, tanto ha riempito occhi e mente di meraviglia.

Ambientato nella Côte d’Opale nel 1910 (siamo dalle parti di Calais), vede protagoniste duemaloute1 famiglie, i Van Peteghem aristocratici un po’ decaduti che vengono in vacanza estiva in quei luoghi così ameni, e i Brufort, raccoglitori di cozze, una volta pescatori ora traghettatori dei villeggianti da una sponda all’altra di piccoli tratti di costa inondati dall’acqua che sale per la marea.
Misteriose sparizioni di turisti fanno intervenire un enorme commissario di polizia e il suo attendente piccolo e dai capelli rossi. Il film dei Brufort Ma Loute si prende una cotta per Billie, ragazza/ragazzo del clan del Van Peteghem. I Brufort nascondono un segreto, ma anche i contraltari borghesi ne hanno diversi. Il mistero? Non verrà risolto naturalmente.

Ma Loute è una dark comedy giocosa e narrativamente libera (la ridicola detection non maloute5viene ovviamente risolta: nessun colpevole per le sparizioni, tutti colpevoli) nello script e nella recitazione.
Dumont usa attori professionisti (tra cui gli immensi Luchini e Binoche) per i borghesi Van Peteghem e non professionisti per i proletari Brufort e chiede a tutti una recitazione libera: spazio dunque all’overacting per i professionisti e alla liberazione della brutalità animale per i non professionisti (incapace di relazionarsi con l’altro sesso il giovane Ma Loute preso dall’eccitazione morde la ragazza). 

Incastrati in questi ruoli, negli istinti trattenuti e poi liberati, nei segreti che si portano maloute2addosso, nella grettezza e brutalità dei comportamenti, borghesi e proletari sono facce opposte di una identica medaglia dell’umanità, stupida e geniale, crudele e gentile, ridicola prima che divertente.

I personaggi costruiti da Dumont si muovono in una scatola magica che il regista  costruisce in modo rigoroso, estrema precisione dell’inquadratura (che non manca di ammiccare giocosamente allo spettatore: le corse dei personaggi verso la macchina da presa che il regista fa terminare proprio nel punto – sembra quasi di vederlo segnato per terra – in cui si ottiene un efficace primo piano, come si faceva spesso nel cinema di un tempo) e una consapevolezza che non viene mai meno.

Solo un cinema così disciplinato e severo (come la squadrata casa dei Van Peteghem, in stilemaloute3.jpg egizio tolemaico, e qui si potrebbero aprire altre numerose porte di senso) consente il funzionamento di una storia slegata da necessità narrative (che il regista costruisce e subito smonta in modo assai divertente con l’uso efficace della colonna sonora) che è in re ipsa il cinema della meraviglia e dello stupore messi alla berlina, usando un paesaggio meraviglioso che né i borghesi (che ripetono meccanicamente “che meraviglia” senza credervi) né i proletari (per Ma Loute è normale) sono in grado di godersi. 

 

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Il diritto di uccidere, la morte in conference call

C’è chiaramente un grande metaforone biblico in Eye in the sky, il film di Gavin Hood da noi uscito inopinatamente col titolo Il diritto di uccidere

Helen Mirren – scelta di cast molto interessante – veste i panni di un colonnello inglese a capo di una operazione di intelligence che la porta a scovare pericolosi ricercati internazionali affiliati a una organizzazione terroristica in una casa di un quartiere periferico di Nairobi controllato dalle forze terroristiche. eye03
I sospettati sono scovati nell’abitazione grazie a un drone pilotato a distanza da un giovane ufficiale in Nevada. Nel frattempo a Londra in una war room – l’operazione è in capo agli inglesi, anche se gli americani forniscono e pilotano il drone arma letale – un generale e i politici decidono se autorizzare o meno quella che da una operazione di sorveglianza e cattura si è trasformata in una operazione di sparo a distanza e uccisione per una serie di circostanze nel frattempo intervenute.
Oltre al drone, occhio nel cielo, un altro occhio, più piccolo, un insetto con telecamera viene introdotto nella casa sospetta consentendo, grazie al programma di identificazione facciale, di avere la prova che i ricercati sono proprio là dentro.
Ora si tratta di prendere delle decisioni.

Strutturato come una formidabile conference call che decide della vita delle persone – noneye01 solo i terroristi ma anche gli eventuali danni collaterali a civili (calcolati in fredde percentuali “accettabili”) e politici (se si viene a sapere si perdono voti), il film di Gavin Hood sceneggiato da Guy Hibbert risulta essere uno dei più lucidi esempi sulla problematicità dell’utilizzo dei droni in guerra che non produce gratuita enfatica indignazione nello spettatore ma non titilla nemmeno il guerrafondaio giocandosela più sul fare domande che dare conclusive risposte.

Un po’ “sparatutto” in prima persona, un po’ adventure game sulla inevitabilità delleeye02.jpg decisioni da prendere e delle motivazioni per cui le si prendono: la politica che lavora sulla rielezione e sull’impatto dei media, i militari cui interessa eseguire una missione al meglio cercando di minimizzare quanto possibile gli inevitabili danni. Anche se poi è al giovane tenente Aaron Paul viene lasciata la responsabilità di premere il grilletto, non ai decisori militari, il colonnello Helen Mirren e il generale Alan Rickman (scomparso prima dell’uscita del film e cui la pellicola è dedicata) né tantomeno a quelli politici ognuno chiuso nel suo cubicolo di player.

“Non osi mai ricordare a un militare che non conosce il costo della guerra” apostrofa il generale alla politica che più si era opposta all’azione nella war room. “Io conosco gli effetti degli attacchi suicidi, ero sul posto”. 

Già ma ora pare che non sia più necessario essere sul posto, si agisce a distanza, e il grilletto lo si preme stando al sicuro in un container nel Nevada, in una calda stanza a Londra o in un bunker militare. 
Si “gioca alla guerra” da sicure console, ma qualcuno muore davvero. 

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La pazza gioia, sani di diventa

Incastonato negli anni ’60 (la gloria del cinema italiano) come spirito giocoso e matto epazzagioia3 allo stesso tempo estremamente consapevole dell’oggi, il cinema di Paolo Virzì è meraviglioso proprio per il suo prendere insieme in un applauso a fine proiezione i ventenni e le signore coi capelli grigi. Insomma un classico senza polvere capace di emozionare senza ricattare.

La pazza gioia è la storia di due donne che fanno amicizia in una comunità terapeutica. Una viene da un ambiente ricco e ipocrita, l’altra da una gravidanza con un uomo sbagliato e un bambino in affido. Entrambe con molti problemi a comunicare con gli altri forse perché nessuno ha trovato la chiave giusta per parlare con loro.pazzagioia1

L’occasione di una fuga dalla comunità terapeutica è occasione per un viaggio di conoscenza reciproca, affetto tra donne che cresce e (ri)soluzione delle questioni in sospeso, di conti da chiudere con uomini assenti e incapaci.

Sorretto come sempre da una grande solidità della scrittura (Virzì qui si fa aiutare da Francesca Archibugi che di psicoterapia un po’ se ne intende), quel che rende però questa storia formidabile è l’amore del regista per i suoi personaggi, valorizzando appieno Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti (in due pazzagioia2parti molto a rischio), con un controllo, una empatia, un amore che pochi registi italiani hanno avuto per le donne senza filmarle con desiderio (il pensiero va ovviamente a Pietrangeli ma il riferimento più immediato per Virzì è ovviamente Monicelli).
Una macchina da presa che, come in Monicelli, corre libera fregandosene di sbavature e imperfezioni, più preoccupata di non perdere uno sguardo, un frammento del percorso delle due matte che di aggiustare il tiro, generosa e grata, sorpresa e stupita. E onesta, oserei dire, ed è questo che il pubblico – che poi è quello per cui Virzì come Monicelli faceva il cinematorgafo – apprezza.

Niente piagnistei o commozione ricattatoria, Virzì non è uomo del sud, le sue donne non sipazzagioia4 piangono addosso ma vogliono cambiare, cadono (e quanto letteralmente cascano Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti!) ma si rialzano, con la voglia di aggiustare le cose che non sono a posto. E che forse mai si metteranno a posto, perché la vita è imperfetta, noi siamo anche gli sbagli che facciamo, come madri e come figlie, come esseri umani alla ricerca del nostro posto nel mondo. Non è detto che lo si trovi, non è detto che si guarisca. Ma proviamoci, suvvia!

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